Onorevoli Colleghi! - Nel 2002, in occasione di una assemblea dell'Istituto, il Governatore della Banca d'Italia ebbe ad affermare che: «Le banche popolari con il loro originale statuto coniugano l'attenzione alle economie locali con l'offerta di servizi di elevata qualità; arricchiscono l'articolazione del nostro sistema bancario.
      Il numero delle banche popolari da 100 alla fine del 1992 è diminuito a 39 nel 2002, per lo più attraverso acquisizioni e fusioni all'interno della stessa categoria. La quota di mercato è salita dal 12 al 15 per cento. Sono banche caratterizzate in genere da buoni parametri di efficienza».
      Anche alcuni autorevoli senatori, presentatori nella scorsa legislatura di un progetto di legge di riforma della disciplina delle banche popolari (atto Senato n. 1522) riconoscevano che il modello della banca popolare aveva avuto un sicuro successo di mercato, in termini di quote relative agli sportelli, ai depositi e agli impieghi, tanto che negli ultimi 25-30 anni «dette quote sono risultate in continua crescita. Le lusinghiere performance economiche ed aziendali sia sul piano qualitativo che quantitativo sono dovute alla specificità della disciplina di corporate governance oltre che al forte radicamento locale.
      In particolare l'assetto articolato della proprietà (particolare tipo di public company) composta da quattro categorie di soci (finanziatori puri, utenti, dipendenti e amministratori) costringe gli amministratori a contemperare le varie esigenze garantendo soddisfacenti livelli di efficienza e redditività.
      In effetti, se si guarda ad un mercato effettivamente concorrenziale, efficiente e trasparente, non può non considerarsi come un sistema duale di grandi gruppi organizzati in società per azioni e banche popolari e banche cooperative sia sicuramente preferibile ad un sistema che preveda solo le grandi banche spa. E ciò specie se si tiene conto del tessuto economico

 

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del nostro Paese ove, data la prevalenza di piccole e medie imprese, la presenza di banche di medie dimensioni e con forti ramificazioni territoriali è elemento determinante dello sviluppo».
      Lo stesso processo di innovazione del diritto societario, culminato nella legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, e nel decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, è pervenuto a risultati in piena sintonia con questi giudizi. Infatti, il principio fissato al comma 3 dell'articolo 5 della citata legge n. 366 del 2001, disposizione espressamente dedicata alla società cooperativa, e la sua stessa collocazione a chiusura del citato articolo stanno a significare che le banche popolari mantengono la natura di società cooperativa, per quanto rette da regole parzialmente diverse a motivo della specialità dell'attività svolta.
      Non si ravvedono pertanto motivi di interesse generale o di rilevante opportunità che obblighino a modificare un assetto normativo che consente tuttora alle banche popolari, da un lato, di continuare a crescere pur in un sistema fortemente concorrenziale e, dall'altro, di garantire attraverso la loro capillare presenza nel territorio l'accesso al credito degli operatori di minore dimensione, loro clientela di elezione. Un attento studioso del credito popolare, docente all'università di Bergamo, ha infatti affermato: «Il modello popolare funziona perché riunisce intorno a un solo obiettivo (l'accrescimento dell'efficienza, ma soprattutto dell'efficacia) tutti i grandi stakeholders della banca: non soltanto i capitalisti, ma tutti i legittimi portatori di interessi che ruotano attorno a un istituto di credito».
      Stante anche il fatto che il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, già consente alle banche popolari la possibilità di abbandonare lo status di società cooperativa, non sembrano allora sussistere determinanti ragioni per una eventuale trasformazione in società per azioni di diritto speciale, tipologia societaria sconosciuta al nostro ordinamento, non avendone il mondo delle imprese avvertito l'esigenza; formula presumibilmente transitoria, in quanto rende più agevole il successivo passaggio della banca popolare cooperativa alla spa ordinaria.
      D'altro canto la normativa vigente offre al modello ampi spazi di flessibilità; attraverso l'autonomia statutaria si possono introdurre strumenti in grado di accrescere la partecipazione dei soci alla vita della società: assemblee separate, voto per corrispondenza, voto di lista. Tali spazi si possono ulteriormente accrescere al fine di migliorare il funzionamento del governo societario e di soddisfare esigenze specifiche connesse alla quotazione e alla presenza di soci con particolari connotazioni, quali gli investitori istituzionali di lungo periodo.
      Sulla base dell'esperienza, risulta che gli operatori non speculativi - fondi pensione e altri enti istituzionali nazionali ed esteri - non sono interessati a mutare il loro ruolo di investitori finanziari in quello di gestori di imprese, ma piuttosto condizionerebbero la possibilità di investire risorse maggiori a un ampliamento dei limiti di partecipazione loro posti e a una migliore e più ampia informazione sulla gestione. Questi investitori non sono, secondo lo studioso citato in precedenza, in contraddizione, bensì in profonda continuità con l'idea fondante della banca popolare, perché sono essi stessi uno strumento di democrazia economica. La banca popolare, infatti, nasce come veicolo di democrazia societaria, per favorire il concorso di tanti piccoli proprietari nell'indirizzo e nella gestione di una banca locale. Gli investitori istituzionali, come i fondi pensione e le altre categorie di gestori professionali del risparmio, sono anch'essi uno strumento di democrazia economica, perché difendono le ragioni dei piccoli azionisti in maniera più agguerrita, documentata, puntuale e precisa, di quanto i singoli risparmiatori non possano fare da soli.
      Quanto alla «inadeguatezza del modello popolare rispetto alle aspettative degli investitori e dei mercati» una analisi apparsa sul più importante quotidiano economico nazionale rivela che dal 2 novembre 1998
 

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al 31 maggio 2002, vale a dire in una fase negativa del mercato, mentre il «Mib bancario ha perso il 5,6 per cento, le Popolari quotate hanno mostrato una buona capacità di muoversi in controtendenza».
      Tutte queste considerazioni trovano puntuale riscontro negli elementi della presente proposta di legge, in linea peraltro con gli orientamenti manifestati nell'ambito dell'Unione europea in materia di società cooperativa. Va rilevato, infatti, che in sede comunitaria il principio generale informatore in materia di deliberazioni assembleari è il voto per testa; esso può anche subire temperamenti, ma senza modificare la forma societaria; tali temperamenti rappresentano facoltà riservata all'autonomia statutaria; è, comunque, fatta salva l'eventuale diversità delle legislazioni nazionali.
 

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